Barbie – receMsione e mistificazione del Ken gaze

Chi scrive si identifica con i pronomi femminili ma ha la erre moscia e se rilegge questo articolo con gli asterischi va in crash.
Pensatelo giusto, pensatelo inclusivo.

Le Barbie hanno definito ciascuna di noi.
Chi sarei dovuta essere, ad esempio me l’hanno detto loro e Mamma Marghe, quando mi ha regalato prima Barbie dentista e poi Barbie veterinaria. Da non laureata sognava per me un mondo di pezzi di carta e camici bianchi. Le lauree sono arrivate, i camici bianchi sono arrivati anche loro ma non come pensava lei, infatti se ne vedo uno ho gli attacchi di panico.

Ho capito l’importanza della bambola solo da adulta, quando un giorno in università non c’era la professoressa e sono finita a fare colazione con persone con cui avevo in comune giusto la dispensa di microeconomia: le loro Barbie vantavano case negli Hamptons e assistevano a performance delle Spice Girls, Victoria compresa. Le mie avevano fatto tre lavori per pagarsi gli studi ed ero sicura che Barbie veterinaria fosse una ragazza madre. Senza smagliature perché sua zia insegnava pilates negli scantinati e da lei aveva ereditato la pelle elastica. 

Il film diretto da Greta Gerwig e sceneggiato da lei e dal suo partner Noah Baumbach dura 1h e 54 minuti ed è un progetto ambizioso. Viviamo in un mondo di plastica letteralmente ma ci ostiniamo a crederlo vero. Gerwig e Baumbach lo mostrano finto ma troppo spesso il focus del lungometraggio è diverso da quello del titolo. Premesse lodevoli, ma il Ken gaze è ancora dominante.
Lui scopre il patriarcato e noi ci ridiamo su, stanche dei nostri colleghi che ci insegnano il modo migliore per comprare biglietti di concerti (ragazze, qui il suggerimento è “siti di biglietti di concerti”, nel caso in cui qualcuna dovesse aver bisogno) e di chi per strada ci chiede elegantemente una fellatio, mai in latino, ma la mia mamma mi ha fatta studiare e io sono una signorina perbene.

Il film non allarga. Chi lo guarda ride perché è abituato, non perché trova assurdo quello che vede.
Gerwig riesce dove Lena Dunham si è fermata, la voce della nostra generazione è lei, non Hannah Horvath, però non amplia ancora il target.

È bravissima Margot Robbie, è magistrale America Ferrera, divina Kate McKinnon ed è adorabile anche il cast di Sex Education che da Moordale si è spostato in massa a Barbieland per regalare gradevoli siparietti tra Emma Mackey e la Robbie, poiché spesso l’una è scambiata per la sua controparte d’oltreoceano.
È bravo anche Gosling anche se fuori età per essere Ken.
Su questa frase ci sono passata 37 volte, non volevo dirlo perché mi sembra di ragionare come un uomo. Questo, signore, è il retaggio del patriarcato cui siamo abituate dalla nascita.

Bernardo di Chartres, filosofo francese vissuto intorno al 1000, che immagino fremere all’essere citato in questo articolo, sosteneva che siamo “nani sulle spalle di giganti”. La nostra cultura è minuscola rispetto a quella che c’è stata e non esisterebbe se non ci fosse il passato.
Se Berni fosse qui, ci direbbe che il film di Barbie è sotto i 90cm e che Legally Blonde è il gigante a cui dobbiamo le fondamenta su cui è stato possibile costruire le nostre case dei sogni.


 

Barbie è stata ogni cosa pur essendo sempre fedele a sé stessa. Oggi dopo aver deposto lo scettro di salvatrice bianca, vanta amiche di ogni colore, forma ed estrazione sociale.
Credo che non ci si potesse spingere più oltre di così senza scontentare il pubblico, è un po’ come se vedessimo il Papa sul carro del Muccassassina al pride di Roma. Penseremmo ad un’ischemia, non ad un’improvvisa e rivoluzionaria presa di coscienza.

L’istinto, quando si vede una bambola, è quello di giocarci e anche stavolta è andata così. Questi però non sono i 100m: la nostra è una maratona con le Birkenstock ben salde a terra. 

Dua Lipa Barbie sirena ti voglio bene un casino. 

Un bacio a testa,

Marta

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