Se c’è una cosa al mondo su cui non si può fare una serie tv sono gli scacchi: due persone che stanno sedute e guardano dei quadratini bianchi e neri per ore. Una rapina in banca con ostaggi? Figo. Cinque squinternate che sotterrano cadaveri? Può funzionare. Una gang di criminali inglesi di inizio secolo che va avanti a alcol, sangue e sigarette? Sono vostra per sempre. Ma negli scacchi succede tutto nelle loro teste, c’è un orologio che ticchetta, alla fine qualcuno dice “scacco matto” (per quanto ne so, ma mica sempre) e ci si stringe la mano. Poi arrivano quei geni di Scott Frank e Allan Scott e tirano fuori The Queen’s Gambit (orribilmente tradotto in italiano La Regina degli Scacchi) e non solo ti tengono incollata a Netflix per sette episodi – uno più perfetto dell’altro – ma tempo mezz’ora e già hai voglia di comprare una scacchiera e studiare la Difesa Siciliana.
La trama de La Regina degli Scacchi
La protagonista è Beth Harmon (Anya Taylor-Joy) che in orfanotrofio scopre un talento precoce per gli scacchi giocando di nascosto con il custode. Beth impara praticamente con mezza occhiata alla scacchiera: vince contro il custode, vince contro i ragazzi del club di scacchi del liceo, vince contro il presidente del club. Beth ha otto anni. E continuerà a vincere anche fuori, perché gli scacchi sono la sua carta vincente per uscire di prigione, viaggiare, guadagnare, prendere aerei, sbronzarsi di cocktail in volo, comprare vestiti costosi, finire in copertina su Life. E infine, l’Europa. Siamo nella plasticosa America degli anni Sessanta, quando si mangiavano orribili cose precotte davanti alla televisione, si fumava a letto in camerette verde menta e le donne perbene passavano il loro tempo a intonare lo smalto delle unghie alla sfumatura di rossetto. Sì, lo so, somiglia molto al nostro lockdown.
Genio & Follia
Comunque. Dicevamo, l’orfanotrofio: pare che negli Stati Uniti, alla fine degli anni 50, avessero la simpatica abitudine di dare i tranquillanti ai bambini, e Beth ne prende più di tutti. Beth non sa cosa sia una dipendenza, né una crisi di astinenza, finché non le tolgono le pillole verdi e lei scassina l’armadietto, apre l’armadietto e ne ingurgita a manciate. Come me con i popcorn durante i trailer (ma ve li ricordate i cinema?) ma con qualche effetto collaterale in più. Poi ci si mette anche la mamma adottiva, che per rinforzare il legame le allunga qualche birra e qualche Martini che le hostess continuano a portare a rotazione. Aggiungeteci una gonna a ruota, un paio di mocassini alla Audrey Hepburn et voilà, ecco a voi il genio maledetto, la campionessa ex bambina prodigio determinata a bruciarsi prima dei 21 anni.
No, non è una serie ‘al femminile’
Io ovviamente tempo dieci minuti e già smaniavo su Google per vedere chi fosse questa campionessa dimenticata, ma La Regina degli Scacchi non è una biografia: è la prima serie veramente forte che Netflix lancia da un bel pezzo. Senza spoilerarvi nulla: Beth ha un tasso di sfiga che nemmeno i medici del Seattle Grey’s (sì Shonda, sto parlando con te), ha un taglio di capelli spaziale, attira gli uomini come i flash dei fotografi e flirta con la fama esattamente come farebbe con gli uomini. Ma The Queen’s Gambit non è l’ennesima serie sulla sindrome della sorella di Shakespeare, cioé sul genio femminile soppresso da un mondo maschile. Sì, Beth è l’unica donna di ogni torneo, e a ogni torneo stravince sugli uomini, il che non la rende molto simpatica. Soprattutto, è una serie su come affrontare i mostri una mossa sulla scacchiera alla volta.
Perché ve la consiglio
Beth è una creatura sola, che affronta l’abbandono, il lutto, la dipendenza, la sconfitta (e il successo, che non sempre è più semplice) senza che nessuno le faccia pat pat sulla schiena. Si fa strada nel mondo contando sull’unica arma che ha a disposizione: un talento micidiale. E come tutte le eroine tragiche, si nutre di quello che la distrugge: l’ambizione, la fame di vincere, l’ansia di un nuovo lockdown. No scusate, mi sono fatta trascinare. La morale è che The Queen’s Gambit è un capolavoro di psicologia, e Beth è l’eroina di cui abbiamo bisogno in questi tempi confusi, rischiarati solo dalle maratone di Harry Potter su Mediaset, che evidentemente sa cose che noi non sappiamo.
Pazzesca la regia, belli i costumi, la musica, bravi tutti ma soprattutto brava Anya Taylor-Joy, che era pazzesca in Emma (quello di Jane Austen, rifatto in una nuova versione 2020 super aesthetic) ed è ancora più pazzesca qui. Menzione speciale a Jacob Fortune-Lloyd, di cui non ho parlato abbastanza ma siccome è già lunghissimo così vi lascio il piacere di scoprirlo su Google Immagini.
Ah, fossi in voi io comprerei una scacchiera. Così, non si sa mai…
-B