Arriva un momento nella vita di una Marta in cui capisci che qualcosa deve cambiare, che non puoi andare avanti così. Il mio momento è stato quando, guardando per l’ennesima volta un documentario, sapevo se avrebbe vinto la preda o il predatore: non tifavo per l’otaria perché sapevo che l’orca non l’avrebbe mangiata.
“Sei fuori”, direte voi e, se lo diceste, probabilmente non vi smentirei.
È nell’apologia della noia che è avvenuto il mio primo incontro con Grand Army, serie Netflix basata su “Slut” spettacolo teatrale di Katie Cappiello. Il telefilm ha 9 episodi la cui durata varia dai 50 minuti all’ora e 10.
Mrs Cappiello, è anche autrice, creatrice e produttrice esecutive della trasposizione dell’opera sul piccolo schermo.
NB. la copertina di questo articolo è bruttissima ma non è colpa mia, si tratta di effettivo materiale promozionale. Comincio a pensare non si tratti di un prodotto di punta.
La trama di Grand Army
Il Grand Army è un liceo pubblico newyorkese ed è inevitabile scenario di drammi adolescenziali più o meno piccoli. In questo caso, si tratta sempre di drammi ENORMI.
Siddharta è indiano, racchiude un segreto più grande di lui e nuota per dimenticare, Dominique è povera e haitiana, Joey è bianca ed esuberante, Jayson è un sassofonista nero e Leila è cinese però non parla cinese.
Ciascuno di loro entra in conflitto con gli altri e con se stesso e prova, in qualche modo, a restare a galla. È il motivo per cui resta a galla anche la serie tv: il conflitto è il motore (im)mobile della narrazione.
Ha le capacità ma non si applica
Ognuno di noi si è sentito dire questa frase almeno una volta nella vita. Per me è stato dopo una lezione di pianoforte: non so se avessi le capacità, di certo non mi applicavo.
Questa serie tv è potenzialmente una bomba, solo che la lasciano lì dimenticandosi di innescarla. Ci sono un sacco di spunti interessanti, di cui vi parlerei ma non posso perché combatto gli spoiler, ma che restano lì, per aria, ma senza saltare.
I temi sono senza dubbio coraggiosi: razzismo, omosessualità, sacrifici, senso di appartenenza, violenza sessuale, ma dei temi così devi gestirli al meglio, altrimenti rischi di diventare il fratellino del telefilm che avresti potuto essere.
La storia di Joey, protagonista anche della pièce teatrale, è indubbiamente molto forte. Sul resto, a parer mio, c’è ancora da lavorare.
In conclusione
Tutti facciamo fatica e, se posso permettermi, in questo preciso storico ne stiamo facendo molta più del solito. Nella serie c’è anche un piccolo riferimento al Covid19, si tratta di un voiceover durante l’ultimo episodio ed è quasi sicuramente stato aggiunto in post produzione perché la seria è stata girata prima della pandemia ma non sono qui per raccontarvi tecnicismi fondamentalmente perché non li so.
Tutti facciamo fatica e forse Grand Army ci dice che, a meno che tu non sia un maschio etero bianco insensibile, la tua vita non sarà per nulla facile. Questo però, in un modo o nell’altro, lo sappiamo dalla prima volta in cui abbiamo capito che le capacità non bastano: bisogna anche applicarsi.
Per chi morisse dalla voglia di saperlo, il documentario di cui parlavo nell’intro è Planet Earth e il mio episodio preferito è il terzo perché ci sono le danze di accoppiamento delle paradisee.
Comunque anche Grand Army non è male.
Vi lascio qui il trailer così potete giudicare da voi se sia il caso di iniziarlo.
Se vi andasse di parlarne, mi trovate qui come sempre.
Un bacio a testa (dalla lunga distanza),
-M