Pose Netflix

Perché vedere: Pose di Netflix

Alcune volte ci pensa Netflix a consigliarti nuove serie televisive in base ai tuoi gusti personali, algoritmi e altre cose a me sconosciute, altre (la maggior parte) ci pensano gli amici. Quando queste due forze si uniscono, per evitare di implodere, l’unica scelta saggia da prendere è quella di rispondere a tutti gli impulsi e di obbedire senza opposizione alcuna (ad oggi, ancora non so se a farmi più paura fosse lo spam aggressivo di Netflix oppure la mia amica. È alta 1.83… la risposta forse già la sapete).

Una settimana fa ho finito il binge watching di Pose e, per celebrare insieme il pride month ho deciso di parlarvene.

 

La trama di Pose

Pose (2018) è una serie FX distribuita in Italia da Netflix, ideata da Brad Falchuk, Steven Canals, il re indiscusso Ryan Murphy e prodotta da Nina Jacobson (sì, la stessa produttrice di tutti gli Hunger Games). Ambientata a New York a cavallo tra gli anni 1987 e 1988, è diventato già una perla grezza del mondo pop da noi tanto osannato e racchiude un’esplicita critica sociale al mondo di quegli anni, all’ascesa dei Trump in particolare, che passa attraverso il colorato mondo dei ball e la rivalità tra quelle che vengono definite “famiglie”. Nella realizzazione della serie, Ryan Murphy, ha affermato di essere stato ispirato dal documentario di Jennie Livingston, Paris is Burning, del 1990.

 

Perché vederlo

  • C’è Evan Peters.
  • Per l’impeccabile rappresentazione del mondo LGBT+ degli anni ’80. Si fa luce sulle difficoltà e sulle paure che da sempre hanno caratterizzato questo mondo, sulla voglia di lottare e di uscire allo scoperto per urlare al mondo “esisto anche io”.
  • Amanti delle produzioni di Ryan Murphy, mi rivolgo a voi. Negli anni lo abbiamo visto cimentarsi in generi differenti e (quasi) tutti ben riusciti, ma nulla mai si è avvicinato a Pose.
  • Perché gli attori che si celano dietro i personaggi conoscono il mondo LGBT+ in prima persona, facendone parte. Mi sono perso tra i vari profili internet per scoprire il background di ogni singolo attore ed è stata la scelta più giusta che potessi fare per poter valutare la riuscita di questa serie a tutto tondo. 
  • C’è EVAN PETERS
  • La scenografia emblematica: si gioca per contrasti metaforici. Colori e luci dominano il locale dove i ball hanno luogo, i vestiti di paillettes, i trofei, ma appena le porte si chiudono, tutto diventa più buio, più grigio. 
  • Per Billy Porter che molti di voi ricorderanno per la parte di Behold Chablis in American Horror Story: Apocalypse. La sua interpretazione di Pray Tell, l’ha portato alla candidatura di un Golden Globe come miglior attore in una serie drammatica.
  • L’ho già scritto che c’è… – ok, come non detto!

 

Perché non vederlo

  • I cliché anche se trattati in maniera magistrale, nelle serie tv/film sono sempre un mio personale tallone d’Achille. Si parla di HIV, di storie d’amore impossibili, e molto altro basta ma questo è un blog spoiler-free, quindi…
  • Sono otto episodi da un’ora l’uno circa, e con una trama così scheletrica che a tratti potrebbe risultare claustrofobia per quanto monotematica, potrebbero risultare eccessivi.
  • Ho finito i contro, ciò significa che dovete per forza dargli almeno una possibilità, giusto?!

In attesa dell’uscita della seconda stagione l’11 giugno, vi lascio con il trailer e un piccolo regalo finale:

 

Hitting the right spot:

  • Best performance: Billy Porter (Pray Tell)
  • Favorite character: Martinez “Lil Papi” Evangelista (Angel Bismark Curiel)
  • Favorite Episode: 1×06 Love is the Message
  • Best scene: la scena iniziale del Pilot

-NIC.

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