Febbraio è per me un mese particolarmente intenso. Se la natura decide di farlo un po’ più in là io già mi trasformo, assumendo le forme di un kaiser e pianificando tabelle di marcia infrangibili per guardare tutti i film candidati agli Oscar in modo tale da fare previsioni la domenica pomeriggio prima della cerimonia.
Ebbene, ho visto tutti i film nella categoria miglior film e ho deciso di parlarvi di quello che secondo il mio modesto ma non troppo parere dovrebbe vincere: Green Book.
La trama di Green Book
Viggo Mortensen è stato chiamato alle armi dal regista Peter Farrelly per interpretare Nick Vallelonga, padre della classica famiglia italiana che gli americani c’hanno più volte dimostrato di aver dipinto nel loro immaginario collettivo: piatti di spaghetti ovunque, tavolate di persone che divorano pizza e vino rosso a qualsiasi ora del giorno, donne eccessivamente calorose che accolgono gli ospiti. Il tutto nella New York degli anni sessanta. Nick è tutto ciò che ci si aspetta da un uomo bianco eterosessuale di sessant’anni fa ma anche un po’, ahimè, di quello che ci si aspetta da un uomo bianco eterosessuale di oggi. Diffidente nei confronti di chi ha il colore della pelle diverso dalla sua al punto da buttare via i bicchieri utilizzati da due operai in casa sua, abituato a stare nella sua confort-zone di battute a sfondo omofobo con i compagni di birra, sicuro di poter fare tutto ciò che vuole utilizzando la forza fisica. La sua vita e il suo modo di essere cambiano quando accetta di lavorare per Don Shirley (il grande Mahershala Ali), pianista afroamericano nonché incarnazione di tutti i pregiudizi esistenti su questo mondo, che lo ingaggia come tassista durante il suo tour nel Sud degli Stati Uniti. E’ proprio l’artista a scegliere di affrontare territori dove il pregiudizio è vera e propria forza fisica nonostante sia consapevole di poter vivere nel giubilo e nell’adorazione totale stando solo a New York, perché, come spiegato dai suoi collaboratori durante il film, per cambiare la gente ci vuole coraggio.
Il film affronta il percorso di Don Shirley e il percorso di Nick Vallelonga, che si uniscono per arricchirsi a vicenda.
Perché vederlo
Perché c’è tutto. Ci sono momenti in cui il tuo vicino al cinema ti guarderebbe con aria di rimprovero per quanto sgraziatamente stai ridendo se solo non avesse le lacrime agli occhi anche lui ma ce ne sono altri in cui la rabbia, il disgusto e la tristezza prendono il sopravvento. La realtà ti viene sbattuta in faccia in modo crudo, senza troppi giri di parole, e tu resti lì immobile con la mano a mezz’aria dimenticando improvvisamente che volevi ficcare quel pop corn al caramello nella tua bocca e riflettendo su quel fotogramma che sai già ti rimarrà impresso per una settimana.
Ho amato tutto: la fotografia (ogni inquadratura sembra un quadro), i temi trattati, la capacità di alternare una scena comica ad una drammatica rispettando comunque i tempi dello spettatore. Ogni luogo comune viene sradicato, l’idea di uomo bianco che prevale sull’uomo nero viene raccontato attraverso un uomo nero che è il capo di un uomo bianco.
Tematica per me affrontata in modo sublime è l’esclusione dalla società del protagonista, che ha raggiunto l’uguaglianza o una parvenza di uguaglianza dal punto di vista economico (perché tutto sottolinea che dal punto di vista sociale non ci si è minimamente vicini) con i cosiddetti bianchi, non solo dai bianchi ma anche e soprattutto dai neri: “se non sono abbastanza bianco, se non sono abbastanza nero, se non sono abbastanza uomo, e allora dimmelo tu, che cosa sono?”
Io in lacrime sul mio sedile al cinema.
Tra i tanti riconoscimenti ricevuti (tra Golden Globes, Toronto International Film Festival e molto altro) il film è in lizza per la candidatura agli Oscar come miglior film, miglior sceneggiatura originale e miglior montaggio, Viggo Mortensen come migliore attore protagonista, Mahershala Ali come migliore attore non protagonista.
Vi lascio qui il trailer:
Buona visione!
-D