Vi è mai capitato di pensare che niente potrebbe mai essere meglio di così, di pensare che forse Leibniz aveva ragione nel descrivere il nostro come “migliore dei mondi possibili”?
Quando gli occhi di Adele si sono aperti sullo schermo ne ho avuta la certezza: 2h tra il bianco ed il nero capaci di farti sentire più infinita di un capitolo di Chbosky.
Come già vi avevo anticipato, prendere i biglietti non è stata un’impresa facile ma sappiamo che per avere una buona sceneggiatura è necessario superare un ostacolo e direi che 7h su Ticketone sono un giusto compromesso.
Sabato 28 maggio, cielo terso. Entriamo all’Arena un po’ più tardi di quanto avremmo voluto, abbiamo recentemente rivalutato le 5th Harmony e Davide non perde occasione per farci ascoltare i live di Work from Home, posti non numerati incredibilmente pieni e, appena arriviamo, aprono un settore nuovo.
Dicono di correre ma io sono coerente e non lo faccio da quando avevo 8 anni: mi tengono il posto. Tutt’intorno si parlano lingue un po’ a caso, le brasiliane dietro di me (non intendo le culottes ma persone vere) si rendono conto che mi sto riprendendo da sola e mi photobomberano pure le registrazioni vocali, i ragazzi davanti non capiscono nulla di inglese e quelle a sinistra hanno lasciato a casa i fazzoletti.
Un’ecatombe.
Adele ci saluta più volte, al terzo Hello ho seriamente temuto fosse tutto finito tipo triplice fischio dell’arbitro in coda ad una partita ma invece no, pelle perfetta come se fosse costantemente coccolata dal filtro Kardashian che tanto mi piace su Snapchat e comincia a cantare, comincia a sorridere tra il pubblico delle poltroncine mentre noi guardiamo la scena sullo schermo del Samsung di quello di fronte.
Lei afferma di avere un moscerino nell’occhio ma è perfettamente impassibile ed io mi guardo intorno immaginando quanti moscerini servirebbero per dare un alibi a tutti i presenti perché piangere in quel modo dopo solo una canzone è davvero, davvero troppo.
Dopo 8 mesi di marketing martellante, scopro finalmente il perché della costante grafica b&w: Adele è una coppia dicotomica che respira.
Quando parla è luminosa, ride sempre e tanto. Ti invita sul palco e ti abbraccia (se fosse toccato a me sarebbe stato necessario un piede di porco perché non me ne sarei mai andata), ti racconta di quella sua amica ad Hastings, ti spiega che no, Someone Like You non è così tragica perché alla fine c’è un futuro senza negazioni, un altro come te lo troverà eccome.
Quando canta, invece, il sole si eclissa per tre minuti e lascia spazio al buio, a quell’amore nascosto che è stanca di fare e tu quasi hai paura ad applaudire perché cerchi il trucco come quando guardi i fachiri che stanno in perfetto equilibrio su un bastone. Ti fermi e dai la colpa all’allergia, tiri su col naso e abbracci chi hai accanto perché sapete che ora ne avete bisogno entrambi.
Di concerti ne ho visti molti più di quanto io non sia disposta ad ammettere ma questo… questo mi ha rubato davvero il cuore.
C’erano le persone giuste, quelle a cui aggrapparti quando l’Arena sembrava crollare.
C’erano persone che non sapevi essere giuste ma che hanno reso giusto il resto, due chiacchiere prima di entrare, qualcosa da bere dopo il concerto e canzoni cantate nell’androne di una casa in affitto il giorno dopo.
Io Adele vorrei ringraziarti e non solo perché hai trovato il modo ideale per capitalizzare il dolore.
Vorrei ringraziarti per i coriandoli con dedica lanciati a fine concerto, a me ne è capitato uno che afferma un profetico “everybody loves the things you do“.
Non so se sia vero e anzi, sono quasi sicura sia il contrario però… però chissenefrega.
Il nero non esiste senza il bianco e viceversa.
Canta scuro per tre minuti e poi torna a sorridere: basta guardarsi intorno per accorgersi che ne vale la pena.
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